Ormai sapete quanto amo panificare, penso lo abbiate capito. Al momento di infornare, davanti ad un impasto al quale hai dedicato praticamente tre giorni (poi vi spiego il perché), prendi la lametta per inciderlo e ti domandi…lo incido così? O lo incido cosa? Poi nell’animo hai il cuore che batte forte nella speranza che la tua fatica sia ripagata e anche se ne sei quasi convinta, il timore dell’errore o dell’orrore è sempre in agguato.
Ma “er core de mamma” e cioè il mio impasto non poteva attendere così decido e incido. Nell’istante in cui ho afferrato la lama mi sono ricordata improvvisamente e non chiedetemi perché, del selciato romano che più di qualche volta tra l’altro, da ragazza con i tacchi a spillo, mi costringeva a bloccarmi per non spezzarli.
Così, rimembrando a quei bei selci antracite, ho inciso e infornato. Nel frattempo che ero in adorazione del mio pane, cosa che faccio sempre quando inforno, ho agguantato il mio smartphone e sono andata alla ricerca della storia del sampietrino. Curiosa come una scimmia io! Ho trovato una frase meravigliosa che in una qualche misura è assolutamente attinente alla panificazione. La frase è questa
“Il sampietrino, un antico mosaico di di lava artigianale, frutto del ventre della terra e della sapienza dell’uomo”.
L’analogia della frase mi ha colpita poiché il pane rappresenta proprio il frutto artigianale del ventre di madre terra, un miracolo che ha origine dalla maestria e dalla sapienza dell’uomo. L’analogia calza difatti a pennello ed è per questo che nell’osservare il mio pane svilupparsi nel forno, ero doppiamente felice poiché ammiravo estasiata il risultato della perfetta riuscita dell’idea iniziale che mi aveva portata ad inciderlo ispirandomi al suddetto selciato. Essendo poi pane un prodotto antico, risalente a tempi della preistoria, riscontriamo ancora una volta un analogo parallelismo con il blocchetto di selce comune che ricopre le strade romane fin dall’antichità. Il “colloquio” tra interno e volume (pavimentazione sradale ed edifici), tra orizzontale e verticale, è sempre ricercato perché sinonimo di armonia ed equilibrio estetico (architettonico).
Non mi dilungo oltre ma spero di avervi trasferito un pò del mio amore per questo pane. Per approfondimenti sul sanpietrino romano, rimando i più curiosi a questo sito dove ho trovato le bellissime frasi e altre interessanti informazioni mentre per il mio pane, vi rimando al procedimento che segue. Buona lettura.
Ingredienti
- 120 g di madre liquida fredda (non rinfrescata dal giorno precedente)
- 500 g di farina di frumento tenero di tipo 0 Alce Nero
- 90 g di farro integrale Ecor
- 356 g di acqua (di rubinetto, fredda)
- 12 g di sale fino
- 12 g di sciroppo di malto d’orzo liquido
- Tanta pazienza
Riporto qui la temperatura ambiente nel periodo in cui ho realizzato questo pane in modo che possiate regolarvi semmai vi venisse voglia di realizzarlo: 20°C
Procedimento
Un’ora prima di impastare sottoponete il vostro impasto al processo autolitico con entrambe le farine setacciate e 331 g (55%) dell’acqua a vostra disposizione versando nella boule della planetaria l’acqua sulla farina e, con il gancio montato, azionate il motore a velocità 1 fin quando la boule non risulti pulita. Coprite con un piatto.
Versate la madre liquida sull’impasto precedentemente preparato, il malto e azionate a velocità 1. Quando la boule inizia ad essere di nuovo pulita, inserite il sale e aumentate a 3 versando l’acqua a filo. Alternate la velocità da 3 a 4, fino a quando l’impasto non risulta compatto e avviluppato al gancio. Stoppate la macchina e con il termometro digitale misurate la temperatura. Se più bassa di 24°C azionate di nuovo. Dovete chiudere l’impasto a 24/26°C. Vedrete che con queste temperature, l’impasto sarà perfettamente incordato, anche se non farà subito un velo perfettamente elastico poiché prima del riposo (puntata), a causa della manipolazione meccanica, la struttura glutinica risulterà un tantino tenace e poco elastica.Questo è normale, vedrete che dopo 30 minuti sarà un elastico di seta.
Questo pane non è molto idratato perché preferisco far lavorare chi mi segue con basse idratazioni, evitando fermaporte e dischi volanti. Stiamo parlando infatti di un 64% minimo di idratazione totale che consente una buona riuscita delle incisioni e un ottimo sviluppo del volume. Uno degli ingredienti che ho inserito questa volta è la pazienza. Si perché ce n’è voluta molta e questa dote deve divenire un verbo nell’arte bianca se si vogliono raggiungere discreti risultati. A 20°C di temperatura, avevo optato per un procedimento che però non si è rivelato esattamente come lo avevo pensato per cui cambio di rotta e vi spiego perché e come.
Dopo trenta minuti di riposo l’ho trasferito in un contenitore rettangolare trasparente lievemente oleato. Avevo immaginato una puntata in massa di tre ore durante le quali alternare 3 pieghe (Self&Fold) in ciotola.
Allungando l’impasto durante il primo giro di piega si rivelava fantastico tuttavia, alla fine delle tre ore, pur essendo sufficientemente asciutto, notavo dalla trasparenza del contenitore che la fermentazione non era ben partita. Nessun alveolo presente. Va bene cambiamo sistema, ho pensato!
A questo punto optato per il frigo dove ha sostato a +4°C la bellezza di 16 ore e trenta minuti. Io ho superato la notte con tutta serenità poiché sapevo che la farina forte mi avrebbe consentito una lunga e tranquilla sosta in frigo.
Il giorno seguente, ho estratto dal frigo l’impasto e l’ho depositato in forno con lucina accesa. Dopo sette ore, misurando 22°C al cuore, l’impasto aveva finalmente raddoppiato il suo volume (altro che pazienza). A quel punto l’ho annusato e profumava di pane. Il mio naso la sa lunga e così, tranquillamente, l’ho ribaltato sulla spianatoia appena spolverata di semola rimacinata. E’ venuto giù che era un amore. Soffice e lieve come una piuma spugnosa.
Una spruzzatina di farina e due pieghe a distanza di 30 minuti l’una dall’altra prima della formatura finale e via poi nel cestino di lievitazione abbondantemente spolverato di semola rimacinata.
Appretto (riposo) di due ore nel forno (sempre spento con lucina accesa) e poi di nuovo in frigo per altre 16 ore. Questa volta non ho staccato la spia di lievitazione e suggerisco a chi mi segue sempre comunque di farla ma questa volta, infornare al raddoppio e non proprio troppo oltre il punto di forno. In gergo, si dice “ancora giovane”.
Trascorso il tempo, ho acceso il forno lasciando il mio impasto in frigo per tutto il tempo necessario a che il forno raggiungesse la temperatura massima consentita (220°C) raggiunta la quale, ho prelevato l’impasto dal frigorifero, l’ho ribaltato sulla leccarda (fredda), ho inciso a “sampietrino” con una lama ben affilata e ho infornato.
Per la cottura frigo/forno, vi rimando a questa pagina che ormai dovreste conoscere e vi auguro, come sempre,
Buon pane! 😉